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Deleuze ventanni dopo
A cura di Giuseppe Crivella
L’impersonale*
Gilles Deleuze, immanenza e vita
di René Schérer
(Traduzione di Giuseppe Crivella)
2 ottobre 2015
La mia riflessione verterà sull’omonimia dei due Fourier e sull’eventualità di una relazione teorica tra di essi riguardante la nozione di serie. La relazione non è che di contemporaneità (a dispetto di ciò che aveva potuto stabilire Raymond Queneau [1]) tra il Fourier matematico, la cui importanza, come mostra Bernard Cache, è stata capitale nella creazione dei calcoli dell’informatica, e il Fourier delle serie passionali. Benché, in vista di ciò, quest’ultimo abbia proposto delle forme di calcolo, di combinazioni, di proporzioni armoniche, essenzialmente musicali. Nessun rapporto con le serie di Joseph Fourier. E tuttavia un rapporto certo con Gilles Deleuze e Félix Guattari, nella critica della civiltà, l’abbandono dell’asse compromesso, del perno che forma l’io egoista, se si vuole accedere alle forze, ai flussi delle passioni e dei desideri. C’è in questo cambiamento di fulcro richiesto dalle serie di Fourier (Charles) qualcosa che è implicato anche nel tema caro a Deleuze: l’impersonale.
Io dico /tema/ conferendo a questo termine il senso che gli ha dato Leibniz nel capitolo I del libro IV dei Nouveaux Essais al quale si richiama Gilles Deleuze nella diciassettesima serie (ancora la serie!) di Logique du sens. Egli vi distingue le proposizioni e i temi o problemi. I primi, oggetti familiari della logica, concernono le determinazioni della conoscenza del reale e la sua verità. Essi vertono sugli individui, le persone, sulle loro significazioni. Ma, prima di essi, in modo più primitivo, il senso si forma al livello delle idee, dei temi e dei problemi. Essi non trattano il reale oggettivo, la sua attualizzazione, la aprono e coprono tutto il campo del possibile, dell’invenzione. Leibniz li chiama /topiche/ o /luoghi di invenzione/. Ad essi capita ai temi detti /incompleti/ di trattare il fittizio, le fantasie dell’immaginazione, l’impossibile; L’Orlando furioso dell’Ariosto, Amadis de Gaule, Cyrano de Bergerac sono delle esposizioni di temi o di problemi nel campo del senso che precedono ogni proposizione oggettiva come ogni esistenza di persone.
A sua volta quindi l’impersonale forma un tema e ogni tema o problema appartiene in qualche modo all’impersonale, situandosi, come dice Leibniz, «prima», «prima che si arrivi alle proposizioni di verità». Questo tema è lì, all’entrata del campo o piano. Esso è incontestabilmente filosofico, ma si potrebbe quasi dire che esso preceda la filosofia, poiché bisogna situarsi secondo lui e in lui per iniziare a filosofare. L’impersonale è una proprietà, una qualificazione, se possiamo usare questa parola, del piano. Il piano di immanenza è impersonale. E il piano di immanenza è senza dubbio ciò su cui i concetti si sviluppano, ma simultaneamente esso in qualche maniera precede i concetti. Esso è pre-concettuale, pre-filosofico, è il luogo, lo spazio topico dei concetti, il loro luogo di invenzione, essendo condizione primaria ma sempre in attesa di essere ritrovata e costruita al fine di creare dei concetti come appare, non solo in Qu’est-ce que la philosophie?, ma anche in Empirisme et subjectivité.
Ogni filosofia crea questo piano, ha bisogno di questo piano sul quale l’esperienza deve presentarsi, appianata, senza residuo di trascendenza o, come dicono gli husserliani, ridotta. Che cos’è questo piano? Bernard Cache parla della differenza, a prima vista incontornabile, tra la creazione macchinica del computer e quella che sembra aver bisogno della coscienza. Ma che cosa vuol dire ciò? Non si tratta certo di una coscienza-soggetto che contempli un piano, di una persona davanti a un piano come l’architetto che contempla il suo sul tavolo. Poiché è piuttosto il piano che guarda, interroga e integra l’architetto. Non c’è piano di coscienza se non nel senso di piano di sorvolo, superficie che ha la proprietà di sorvolare se stessa. Deleuze mantiene a questo proposito la definizione che dava Raymond Ruyer, ricomprendendola tra «i paradossi della coscienza». È un piano di esperienza, piano assoluto di una fenomenologia che non ha bisogno di un io cosciente. Ed è proprio un paradosso che mina la logica ma ne fonda un’altra, rinvia a un’altra «immagine del pensiero».
La logica deleuziana, lo sappiamo, è una logica paradossale, che ammette, esige il paradosso in qualità di operatore affermativo, di principio creativo. È nella logica del paradosso che il piano si sviluppa, che il concetto si costruisce, che può esservi nello stesso tempo continuità e differenza tra le macchine tecniche e le macchine desideranti, come sono in continuità, al livello dell’infinitesimale e del molecolare, materia e anima nella monadologia leibniziana. Il paradosso non è mai negativo o dirimente, ma affermativo e costitutivo.
Esso è, direi recuperando così il mio tema, costitutivo in forza stessa dell’impersonale. Intendiamoci: in primis perché non si comincia a pensare se non grazie all’impersonale del piano; in secundis perché solo l’impersonale apre alla creazione, alla novità dei concetti e delle immagini. E quindi non c’è un evidente paradosso nella proposizione in base alla quale: «Deleuze afferma l’impersonale, aspira all’impersonale»? Ebbene? Qualcuno così originale, così «personale» come Deleuze non parla che di impersonale, ha orrore nel parlare di se stesso, rifiuta ogni allusione alla sua biografia (o, con un sorriso imbarazzato, con humour, sfiorandola, eludendola). Egli afferma l’impersonale e tuttavia nessuno più di lui ha dato l’impressione, scrivendo o parlando, di inventare di volta in volta i propri pensieri e di esserne l’unico autore. Impersonale, là dove egli formicola di originalità, di idiosincrasie, oserei anche dire di codici segreti, propriamente suoi, che solo un «deleuziano» esperto, [2] quasi di nascita può decriptare? Gli interventi di ieri lo hanno mostrato molto bene. C’erano schiere di «non-deleuziani» che inciampavano davanti alla sua definizione del concetto – per trattenere poi solo questa tra molte altre. E Deleuze tuttavia, imperturbabilmente, non scelse che l’impersonale. Effettivamente ecco un tema pieno di paradossi.
Io mi riferirò soltanto, non potendo enumerarli tutti, al paradosso più flagrante di una impersonalità rivendicata dal pensatore più originale della sua epoca. Ma è proprio questo paradosso che ci dà la chiave della soluzione, la formula dell’enigma: che indica il cambiamento di perno secondo cui conviene affrontare il problema e comprendere la risposta. Ciò che ci risponde qui è «Deleuze», null’altro che un nome. Cioè? Avevo intenzione di iniziare il mio omaggio, anche a rischio di essere un po’ solenne, per un amico che non riusciamo ad accettare come scomparso, con una frase di Paul Valéry che Voi conoscete: è quella che apre L’introduction à la méthode de Léonard de Vinci del 1894: «di un uomo resta ciò che dà a pensare il suo nome e le opere che fanno di questo nome un segno di ammirazione, di odio o di indifferenza». Finalmente io faccio tacere i miei scrupoli, a tal punto tale frase sembra adattarsi al tema dell’impersonale, a Deleuze e all’omaggio che possiamo rendergli. Deleuze, sì, è un nome. Egli avrebbe rivendicato di essere un nome. Un nome doppio, come dice Toni Negri: Gilles-Félix. E inoltre egli avrebbe voluto essere una moltitudine, una molteplicità, poiché non vi sono che molteplicità, non individui o persone. Fino alla dispersione molecolare, fino al divenire impercettibile di cui egli si è servito e che riporta, come un refrain, a Fitzgerald, credo.
Resta il nome, che non è la persona, contrariamente a quanto afferma un’antropologia etnologica troppo orientata dalla credenza nella superiorità della persona. Non è alla persona che il nome aderisce. È al personaggio. Ma il personaggio, afferma Deleuze, prevale sulla persona. Quest’ultima non fa che designare il posto incerto di un io, mentre il personaggio raggruppa i momenti intensi, i tratti forti, tutte le singolarità che fanno corpo. Esso disegna e occupa un piano di consistenza. Il personaggio concettuale, leggiamo in Qu’est-ce que la philosophie?, si compone di singolarità che non abitano la persona, ma prendono ricevono una propulsione fuori di essa, vagabonde, nomadi. Il riso, per esempio. Il riso di Foucault. Non è la sua persona, è il suo personaggio.
Il personaggio è dalla parte dell’impersonale, non di quell’impersonale che è comunemente confuso con l’indifferenziazione, ma dal lato di quello che libera le maggiori differenze. Il primo potrebbe essere chiamato impersonale astratto, il secondo impersonale concreto, consistente. Mi si obietterà: voi dite che Deleuze in fondo è un nome, ma non stiamo noi deplorando qui attualmente la scomparsa di Deleuze «in persona»: la sua presenza irrimpiazzabile, i suoi gesti, la sua parola, il suo fascino? Il fascino, esatto; non è l’io, è la persona. Lo spiega lui stesso in Dialogues con Claire Parnet. È un’atmosfera, un cambiamento d’atmosfera, un tremito, un turbamento nello spazio, una differenza di carica, di potenziale. Sono le singolarità che derivano dall’impersonale o ancora dal pre-individuale. Sono esse che compongono il personaggio e derivano dalla sua presenza. Esse producono nello stesso modo senza dubbio gli individui e le persone, ma rischiando di rimanervi incatenati e di scomparire.
Per questo l’impersonale soltanto, lungi dal condurre in Deleuze a una indifferenziazione, permette di liberare le singolarità. Per fissare le idee e il vocabolario, in un tempo così breve e in uno spazio così ridotto, mi le citare unicamente questo estratto da Logique du sens, uno dei più espliciti: «lungi dall’essere individuali o personali, le singolarità presiedono alla genesi degli individui e delle persone: esse si suddividono in un potenziale che non comporta per se stesso né io, né me, ma la attualizzazione dei prodotti» (p. 125).
Ciò potrà essere completato con il passaggio consacrato in Qu’est-ce que la philosophie? ai «personaggi concettuali» nati dall’impersonale delle singolarità che sono prese nel movimento del divenire. «È il destino del filosofo divenire il suo o i suoi personaggi concettuali […].È grazie al nostro personaggio che noi filosofi diveniamo sempre altro e che rinasciamo giardino pubblico o zoo» (qui il divenire-animale caro a Mille plateaux). Questa pagina (62-63) sarebbe da citare per intero, poiché essa risponde a tutte le domande che ci si potrebbe porre sul paradosso di un impersonale che raggiunge la più alta intensità di singolarizzazione e di vita: «Io non sono più io, ma una attitudine del pensiero a vedersi […]. Il personaggio concettuale non ha nulla a che vedere con una personificazione astratta, un simbolo o una allegoria, esso insiste» e, terminando con la formula che esplicitamente sotto la sua forma grammaticale fa intervenire l’impersonale pronominale, «Chi sono io? È sempre una terza persona».
Possiamo andare anche più lontano rispetto a questa formula, essa stessa ambigua e che non sembra capace di dire l’ultima parola sul tema. Poiché, se è vero che /egli/ e /si/ come pronomi nominano l’impersonale e sono i veri soggetti degli enunciati narrativi su questo punto Deleuze segue del tutto Blanchot e la sua teoria della scrittura che non inizia se non con /egli/ l’impersonale deleuziano non ammette che parzialmente una traduzione o una trasposizione linguistica. Esso deborda oltre ogni linguistica verso il senso. Esso concerne l’emergenza di un mondo che ha bisogno per esprimersi di un altro linguaggio rispetto a quello delle persone, fosse pure la terza. Esige una quarta, specifica per le «singolarità» su quel piano di immanenza che può anche essere chiamato trascendentale, poiché ogni trascendenza, a cominciare da quella delle persone, vi si abolisce. Questa formula della «quarta persona» Deleuze la prende in prestito dal poeta americano Lawrence Ferlinghetti. E vale la pena completare un po’ la sua indicazione allusiva (in Logique du sens) con qualche versetto del bel poema scritto in omaggio ad Allen Ginsberg:
Egli è il folle occhio della quarta persona del singolare
della quale nessuno parla
Egli è la voce della quarta persona del singolare
tramite la quale nessuno [3] parla
e che tuttavia esiste [4]
Questi i filosofi e i poeti, voci multiple che, in quanto persone, tendono al divenire-impercettibile. Orrore in Deleuze della persona ed anche giustificata, bisogna dirlo, da un rifiuto deliberato, ostinato di tutte le ingiunzioni della società benpensante: in psicanalisi a «strutturare» l’io, in politica, in morale, ovunque nella vita consueta, a personalizzare, a personalizzarsi: «personalizzare la vostra auto, i vostri mobili, sceglietevi degli oggetto, degli interlocutori personalizzati; personalizzatevi!» Ecco ciò che sentiamo da tutte le parti. Allora Deleuze replica: l’impersonale.
L’impersonale è una sorta di orifiamma, di fiaccola come quella di Karl Kraus. [5] È la macchina da guerra di Deleuze. Contro la società, la religione, lo Stato, la borghesia. A questo punto devo fare una deviazione e risalire indietro nella sua opera, nella sua vita, per mostrare che c’è in lui una costante politica dell’antipersona. Prendo l’idea dalla tesi notevole di Ricardo Tejada El problema etico-politico en la obra de Deleuze (Madrid 1995). Ricardo Tejada parte da un piccolo articolo che ha scovato e che Deleuze aveva scritto nel 1946 per l’unico numero di una effimera rivista creata da Michel Tournier, Espace, consacrata all’«interiorità», alla critica della vita interiore. Tra parentesi, Deleuze non voleva sentir parlare di questo articolo, ma ne ha tacitamente autorizzato la traduzione ed è comparsa nel numero 15 della rivista Archipiélago a Barcellona (1993).
Come indica il suo titolo, «Da Cristo alla borghesia» ad essere in questione, partendo dalla collusione tra la Chiesa e lo Stato di Vichy e all’interno della critica del nuovo orientamento cristiano-sociale sortita dalla resistenza, è la relazione «non contingente» ma essenziale che esiste tra il cristianesimo e lo Stato borghese. A grandi linee, poiché non possiamo seguire i meandri di questa dimostrazione complessa e raffinata, la vita interiore in cui Cristo ha concentrato tutta la vita spirituale è divenuta vita borghese privata assegnata, con la persona e la famiglia, alla salvaguardia dello Stato. Contrariamente a ciò che alcuni pensano e attendono, non c’è un rivoluzionarismo cristiano, perché l’interiorità cristiana, nella frammentazione ordinata [6] che essa implica, giustifica il potere.
Il risultato negativo del cristianesimo è visibile ancora meglio in un testo del 1978 che Ricardo Tejada a buon motivo avvicina mostrando la continuità tra i due allo scritto del 1946. Si tratta della prefazione a L’apocalisse di D. H. Lawrence, firmata insieme a Fanny Deleuze, traduttrice. Lawrence oppone al cristianesimo del potere e del risentimento attribuito a Giovanni di Patmos quello dell’amore di Giovanni l’Evangelista. Ma è proprio l’amore cristiano stesso che bisogna incriminare, nell’opposizione che lo fonda tra il naturale e lo spirituale, nella sua fissazione sull’interiorità dell’io. Ora «l’io non è una relazione, è un riflesso, è il piccolo lucore che emana il soggetto, il lucore di trionfo in un occhio ( il piccolo sporco segreto, dice a volte Lawrence)» ( Critique et clinique, p. 68). Da qui il rifiuto di quell’amore-dono, falso e ipocrita, poiché, scrivono ancora Gilles e Fanny Deleuze, «l’amore non è la parte individuale: esso è piuttosto ciò che fa dell’anima individuale un io. Ora un io è qualcosa da dare o da prendere, che vuole amare o essere amato, è un’allegoria, un’immagine, un soggetto, non è una vera relazione». E, leggendo ancora: «l’io ha la tendenza a identificarsi col mondo, ma è già la morte, mentre l’anima tende il filo delle sue simpatie e antipatie viventi». E, proseguendo questa formula a mio parere molto fourierista: «cessare di pensarsi come un io per viversi come un flusso, un insieme di flussi, in relazione con altri flussi, fuori di sé e in sé». È in questa opposizione al soggetto e all’io, alla persona, che la politica deleuziana viene a fondarsi. È nelle vaste intuizioni di Lawrence che essa nasce, una politica che sopravanza il politico per concernere l’anima, individuale, collettiva, cosmica.
Non si tratta d’altronde di una fusione nella natura, ma di un impersonale, di un nuovo paradosso dell’impersonale attorno al quale possiamo vedere formarsi una politica dell’anima: «non c’è ritorno alla natura, non c’è che un problema politico dell’anima collettiva, le connessioni di cui una società è capace, i flussi che essa supporta, inventa, lascia o fa passare». Ed è seguendo questa linea che nello stesso modo si arriva, sempre per una sorta di paradosso mediante una filosofia così anti-umanista nel senso di un umanismo della persona a ritrovare “l’uomo”, l’umano; ma in quanto “uomo qualunque”, “senza particolarità”, al di fuori del soggetto e della persona, come è visibile nel fondamentale studio Bartleby di Melville. Un uomo estratto, sbarazzatosi della specie e del genere, ricondotto alla sua immanenza e al suo tema impersonale come lo è l’ animal tantum di Avicenna e di Duns Scoto al quale Logique du sens si riferisce: homo tantum ( Logique du sens, p. 148; Critique et clinique, p. 110). Che potrà essere accostato a quell’“umano primordiale” che introduce il guattariano e deleuziano Fernand Deligny a proposito di Janmari, il suo autista, «questo tipetto qui» ( Le croire et le craindre, p. 120). Senza persona e senza io.
Momento finale in ultimo di questo percorso ed ecco che trovo le belle esplicazioni di Jean-Clair Martin sull’evento: l’impersonale è ciò che si riconnette all’evento, è ciò che lo fa sorgere, in particolare tramite e nella scrittura. L’incorporeo dell’evento è portato dall’impersonale della scrittura. È una operazione, l’impersonale che diviene attivo, si potrebbe dire, agente, che si incarna, si attiva, come una forza nascosta, come la forza macchinica dell’anima. Si sarà capito: è la forza dell’/egli/ e del /si/, quello «splendore del si» che celebra la ventunesima serie di Logique du sens (p. 127), consacrata alla morte, a Joe Bousquet e a Maurice Blanchot. Leggibile anche in Virginia Woolf, con Clarissa in quanto persona che si abolisce nel /si/ della passeggiata in Bond Street: «si era lì, ad avanzare in Bond Street […]. Neppure più Clarissa, no, si era il Signor Richard Dalloway» (in inglese « this being Mrs Richard Dalloway», del tutto impersonale). E poiché io menziono la passeggiata per concludere mi ricordo in modo irresistibile une delle obiezioni che Hobbes faceva a Descartes (III obiezione) in base alla quale dal momento «che io cammino», potrei concludere «quindi io sono una passeggiata». Ma certo! Avrebbe risposto Deleuze. Bisogna andare oltre: non sono io che sono, ma c’è, è prima di tutto l’evento, la passeggiata. C’è presso ogni filosofo, oltre a un personaggio concettuale, un altro che è anch’esso un personaggio concettuale sullo sfondo, il suo demone, il demone di Socrate, il demone di Descartes che lo spinge.
Ebbene, non è forse l’impersonale il demone di Deleuze?!
* Pubblicato in Rue Descartes, n. 20, Gilles Deleuze Immanence et vie, Mai 1998, pp. 69-76 [N.d.T.].
[1] R. Queneau, Dialectique hégélienne et séries de Fourier, Bords 1963.
[2] Il testo reca /chevronné/ che propriamente vorrebbe dire /veterano/, indicando cioè colui che ha acquisito esperienza e valore sul campo di battaglia [N.d.T.].
[3] Sia in questa coppia di versi che in quella precedente la versione francese dà luogo ad un gioco di parole estremamente coerente col discorso di Schérer – «Il est la quatrième personne du singulier/ de laquelle personne ne parle» – grazie al quale /persona/ e /nessuno/ finiscono coll’identificarsi [N.d.T.].
[4] Traduzione nostra [N.d.T.].
[5] Die Fackel – La fiaccola, appunto – era il nome della rivista che Karl Kraus diresse dal 1899 al 1933 [N.d.T.].
[6] Nel testo /clivage/, termine indicante la proprietà dei corpi minerali di fratturarsi secondo il senso naturale dei loro strati lamellari [N.d.T.].
René Schérer (Tulle, 25 novembre 1922), filosofo e professore emerito presso Paris VIII, fratello minore del regista Èric Romher. Addottoratosi nel 1960 con uno studio dedicato alla struttura e al fondamento della comunicazione umana, si occupa nel corso degli anni ’60 di Husserl, pubblicando un saggio sul padre della fenomenologia e portando a termine la traduzione in francese delle Ricerche Logiche insieme a Hubert Elie. Passando attraverso il pensiero di Kant, Hegel, Stirner e Heidegger, Schérer approda agli inizi degli anni ’70 alla figura di Fourier il quale diviene il veicolo privilegiato per meditare sul concetto di utopia. Affianca Deleuze nell’insegnamento a Vincennes; durante questo periodo stringe rapporti di amicizia con Foucault, Châtelet, Lapassade. Tra la metà degli anni ’70 e gli anni ’80 i suoi interessi principali si appuntano sulla pedagogia: è di questo periodo la sua opera più celebre e acclamata dal titolo più che eloquente: Émile perverti ou des rapports entre l’education et la sexualité (1974). Altre opere: Husserl, sa vie et son oeuvre (1964), Charles Fourier, l’ordre subversif (1972), Regards sur Deleuze (1988), Passages pasoliniens (con G. Passerone, 2006).
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